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“L’Erbario Essiccato” del laghitano Domenico Coscarelli (Nicola Longobardi, Castellammare di Stabia NA, 2006) del 1804 è un esemplare unico di manoscritto, che raccoglie e descrive centinaia di specie del regno vegetale, e che è stato esposto al Museo Correale di Sorrento fino al 31 maggio 2007. L’autore era nato il 29 giugno 1772 a Lago (CS), e fu Portabandiera del Reggimento Principessa Reale al servizio di S. M. Ferdinando IV Re di Napoli. Il sottoufficiale borbonico era “un appassionato naturalista” che aveva tra i suoi molteplici interessi, anche quello di raccogliere ed essiccare erbe e di attingere, principalmente dalla cultura popolare tradizionale, informazioni sulle loro qualità medicinali.
Il libro “Poesie Varie di Leopoldo Cupelli” del 2001, a cura di Francesco Volpe, è una raccolta delle poesie scritte dal laghitano Leopoldo Cupelli. Sono poesie “civili”, “patriottiche” e “romantiche” dove si denota una assomiglianza a Giosuè Carducci. In quelle “civili” si può apprezzare il suo animo socialista e l’ “anticlericalismo positivistico” contro la “monarchia vaticana”.
Essendo il Cupelli un appassionato lettore e studioso degli scrittori francesi dell’ ‘800, nelle sue poesie “romantiche” si possono apprezzare le note nostalgiche di un grande amore giovanile ed il rimpianto di una stagione che non torna più.
“La Vita di Stefano, brigante Calabrese” di Antonio Coltellaro (Stampa Sud, Lamezia Terme, CZ, 2007) racconta la vita di Stefano, che visse per tanti anni a Lago e che dapprima era soldato, poi partigiano ed infine brigante. Era soprannominato il “Giuliano della Calabria” nell’Appenino Silano ed era un brigante vecchio stampo che rifuggiva dalla violenza gratuita ed interveniva in favore dei deboli e degli oppressi
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“Storia del Comune di Lago Cosenza” 1973 di Alberto Cupelli |
« Italo Scanga Images/reflections/photographs » 1979 di Italo Scanga
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“Aspetti della Cultura e del Mondo Contadino di Lago” di Angela Bruni (Fassano Editore, Cosenza, 1981
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“Don Federico Faraca: Parroco di Lago 1946-1994” di don Giancarlo Gatto (ex parroco di Lago) 2000
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“Storia di Lago e Laghitello” di Sergio Chiatto (Mario Tocci, Cosenza, 1992) |
“Lago, 1753” di Sergio Chiatto Ricchezze e povertà delle locali famiglie nel Catasto Carolino (Santelli, Cosenza, 1993)
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“Storia dello Stato di Aiello in Calabria: Aiello, Serra Aiello, Cleto, Lago, Laghitello, Savuto” 1978 di Rocco Liberti ( professore originario di Oppido Mamertina RC che insegnava italiano ad Aiello Calabro negli anni ’ 60 ) |
“Padre Martino Maria Milito” (Anicia, Palombara Sabina Roma, 2005) di Francesca Stampo (professoressa di Storia della Chiesa di Cosenza presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “S.Francesco di Sales” di Cosenza) |
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“ARCHIVIO AUDIO-VISIVO della MEMORIA STORICA di LAGO” di Maria Sacco e Laila Provenzano (Mazzitelli, Cetraro CS, 2005) di 112 pagine |
“PROVE SCIENTIFICO-SPERIMENTALI dell’ESISTENZA e della SOPRAVVIVENZA dell’ANIMA” del Dott. Luigi Posteraro (Raimondi, Napoli, 1942) |
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“Narrazione storica di don Nicola Cupelli”, Sacerdote di Lago fine 1800 Inizia come segue: “L’una delle più controvertite fondazioni di Padrie nella Calabria, io la stimo la Padria di Lago, sì per la fondazione, sì ancora per tracciarne il nome; e su di ciò vari sono li sentimenti, perché non vi fu istorico, ed autorevole, che di questo argomento scritto avesse, perciò si è dato motivo ai molti scritti, nei quali ciascheduno discorrendo giusto ciò che trovò scritto d’altri, estimò più verisimile, intralciò di molti inverisimilitudini il discorso; su di ciò Barrio lib. 2. ver:138; e Marafioti lib.4. cap :13; altro non dicono, essere contenti di averne solo raccordato il nome. L’abate Pirri lo nota vicino alla città di Nepezia, oggi l’Amantea num.9 Eccl. Panorm. e che, il Conte Ruggiero donò alla chiesa di Palermo, con data 1101, qual poi confirmò il Re Ruggiero suo figliolo, l’anno 1153, ma ciò sarà abbaglio, che niuna scrittura antica lo conferma. Io però, che mi ho sortito i miei natali, ho avuto fortuna di saperne alcune cose, e da molte notizie avute, e da tradizioni, e da manoscritti sciegliendone la meglio, mi sforzerò dargli quel solo, qual sarà più conforme alla congettura dè tempi; “dirai à qual fine, se tanti per numero, per qualità, valentissimi scrittori, non anno lasciato argomento alcuno, senza maneggiarlo?” ….
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“Manoscritto di Giovanni Giannuzzi Savelli” per fornire informazioni riguardanti la casata dei Cupelli e cenni storici su Lago (1905)
“Egregio Cavaliere, la nomina cavalleresca del vostro antenato Cupelli Eugenio, essendo stata fatta dal Papa, non può trovarsi nel grande archivio di Stato di Napoli, dove ad ogni modo ho iniziato le relative ricerche. Andrò pure alla Biblioteca Nazionale e in altre, allo scopo di rintracciare qualche manoscritto o libro a stampa, per vedere se vi fossero riportati i ruoli antichi dei due ordini cavallereschi dell’ordine dello Speron d’Oro e dei Conti Palatini, ma ella comprenderà che per fare ciò occorrerà del tempo. Quindi, abbia la bontà di attendere. In quanto al compenso, non domando nulla. Giacchè lei dovrà essere certamente uno studioso, amante dei fasti antichi dei nostri buoni avi, così qui appresso le vado a fare conoscere qualche cosa intorno a codesto paese di Lago, dimenticato perfino dal famoso storico calabrese Barrio detto lo Strabone di Calabria, il quale, nella sua monumentale opera “De antiquitatae et situm Calabriae. Romae 1571”, sembra si sia dimenticato di Lago, il quale, così ne parla dopo aver visitato San Pietro in Amantea :”Nec longe Lacum pusillum castellum est”. (poco lontano vi è un piccolo castellotto chiamato Lago) Qui è da far notare che Barrio non conosceva affatto Lago, che contava ai suoi tempi quasi 3000 anime, compreso Laghitello; quindi impropriamente lo definì pussillum. Infatti, poco tempo dopo la morte del Barrio, in Lago (compreso Laghitello), vi erano ben 709 famiglie e 888 nel 1632; nel 1797 a Laghitello gli abitanti sommavano a 1050 ed in Lago a 2800 circa…” Copia del precedente testo come fu scritto dal Savelli:
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“Spunti di Spiritualità Mariana nell’Ordine dei Minimi” (MIT, Cosenza, 1969) LIBRETTO scritto da Padre Martino-Maria Milito dei Minimi |
“LE STRINE ATIPICHE DI LAGO” di Ottavio Cavalcanti (Università degli Studi della Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli CZ, 2005) raccoglie le strine di tanti strinari laghitani come Antonio Scanga, Luca Politano, Martino Milito, Francesco De Pascale , Luigi Aloe, Domenico Groe, Alfonso Gatto, Paolino Caruso, Gaetano Naccarato e Vittorio De Luca. Le strine riguardano temi moralistici, politici, nostalgici, romantici, ed umoristici. |
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Pensato per celebrare il bicentenario dell’invasione napoleonica e della resistenza borbonica in Calabria, è da qualche giorno nelle librerie il volume monografico curato dal dott. Sergio Chiatto che raccoglie le relazioni del convegno di studi organizzato a Lago lo scorso mese di agosto 2007. Diversi ed interessanti i temi affrontanti. Il libro, intitolato Invasione e resistenza. I napoleonici a Lago e nel comprensorio di Amantea, edito dall’Amministrazione Comunale, si apre con uno studio del prof. Giuseppe Caridi, ordinario di Storia Moderna all’Università di Messina e Presidente della Deputazione di Storia Patria per la Calabria. Lo storico illustra la situazione regionale prima del decennio francese da molteplici punti di vista, con lo scopo di fornire al lettore una visione, il più possibile completa, sui fenomeni sociali e politici che prepararono il terreno agli imperiali. Nel secondo contributo, il prof. Giovanni Brancaccio, ordinario di Storia Moderna all’Università di Chieti-Pescara, traccia, invece, un quadro dettagliato della storiografia del decennio francese esaltando i contributi offerti da Umberto Caldora nella seconda metà del secolo scorso. Degli scritti in cui lo storico di Castrovillari fece piena luce sull’attività legislativa e riformatrice del governo francese, ovvero su quelle misure, rivelatesi fondamentali per il futuro del Mezzogiorno, che portarono, tra l’altro, all’eversione della feudalità, al conseguente nuovo assetto della proprietà fondiaria e all’affermazione della borghesia. La terza relazione, firmata dal dott. Antonello Savaglio, ricercatore all’Università di Messina, nonché Deputato di Storia Patria per la Calabria, affronta piuttosto il tema della vita quotidiana ad Amantea durante l’assedio napoleonico. L’Autore evidenzia i mille problemi della società civile amanteana nei giorni dell’isolamento quando la maggior parte delle famiglie, fedeli alla monarchia borbonica ed a Ferdinando IV, soffrirono i rigori delle tre “f”, ossia: faide, fame e febbre. Sergio Chiatto, infine, membro della Deputazione di Storia Patria per la Calabria e dell’Accademia Cosentina, scava nella profondità della storia di Lago (va ricordato che il dott. Chiatto ha dedicato al suo paese di adozione altri interessanti lavori) e, con l’ausilio dei libri parrocchiali, degli atti notarili dell’Archivio di Stato di Cosenza e le memorie coeve, si sofferma sugli avvenimenti che caratterizzarono il tentativo repubblicano del 1799 e la resistenza del 1806-1807. Un episodio, quest’ultimo, in cui le famiglie locali si divisero in due fazioni, facendo il gioco dei potenti e dello straniero, e pagando un alto tributo di sangue. Ben settanta furono infatti i caduti laghitani in quelle tristi circostanze, vittime su fronti opposti che la locale Amministrazione ha meritoriamente ricordato su una lapide scolpita proprio in occasione del convegno di studi ed infissa all’interno della Casa comunale. Il libro termina con la comunicazione del dott. Francesco Falsetti, erede del tenente colonnello Raffaele “Centanni” Falsetti le cui gesta militari gli garantirono un posto di primo piano tra gli eroi di casa Borbone.
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ARTICOLO su LEOPOLDO CUPELLI di Francesco Gallo PUBBLICATO su “STORICITTA’” (marzo 2008) | |||||||||
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“LAGHITANI nel MONDO” di Francesco Gallo (3° Edizione, 2007), in 626 pagine e con 400 illustrazioni, descrive l’esperienza dei 4000 laghitani sparsi in America, Australia, Europa ed in altri Comuni italiani. Tramite lettere e documenti, il testo descrive la partenza e l’integrazione dei nostri paesani, presentando le storie delle singole famiglie ed un elenco dettagliato di chi, dove, quando e come emigrarono da Lago. Riporta delle interviste telefoniche e le E mail dei compaesani che hanno gentilmente collaborato alla realizzazione di questo volume dedicato ai nostri padri e nonni, protagonisti intrepidi che osarono tuffarsi nell’ignoto per poter sperare in un futuro migliore. ENGLISH VERSION: The revised and enlarged 3rd Edition (2007) of the book “LAGHITANI nel MONDO” (“Laghitans in the World”) by Dr. Francesco Gallo has 626 pages and 400 illustrations that describe the experience of 4000 Laghitans as immigrants in North and South America, Australia, Europe and others cities in Italy.
Through original letters and documents, the text reports who, where, when and how our fellow townsmen emigrated from Lago, a town of Calabria in Southern Italy.
It offers the readers the contents of phone interviews and E-mails the author received from Laghitans who graciously contributed to create this volume dedicated to our ancestors, grandparents and parents who courageously plunged themselves into unknown lands in the hope of a better life.
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Dott. Francesco Gallo
LeGRANDI FAMIGLIE di LAGO (CS) del XIX e XX Secolo
“Le
Grandi Famiglie di Lago” una pubblicazione del Dott. Francesco Gallo
dedicata alle famiglie di Lago che durante il XIX e XX
Secolo furono essenziali per l’emancipazione socio-culturale dei
laghitani. Questo lavoro in 300 pagine, ricche di documenti storici e foto d’epoca, si pone l’obiettivo di salvaguardare il ricordo di laghitani appartenenti a famiglie erudite e benestanti che con i loro importanti ruoli professionali, sociali ed economici, contribuirono a far progredire il paese occupandosi delle gestioni educative, legali, sanitarie, amministrative ed agricole specie quando a Lago c’erano analfabetismo, epidemie, povertà ed emigrazione di massa. Alcune famiglie descritte nel libro: BARONE, BELSITO, CARUSO, CHIATTO, CUPELLI, DE PASCALE, DE PIRO, FALSETTI, FEDERICI, GATTI, LINZA, MAGLIOCCHI, MARTILLOTTI, MAZZOTTI, MILITO, MUTI, PALUMBO, POLITANI, POSTERARO, PRESTA, SCANGA, SCARAMELLI e TURCHI (erano i proprietari terrieri, i Sindaci, gli Avvocati, i Notai, i Giudici,
gli
Insegnanti, i Medici, i Farmacisti ed i Sacerdoti del paese)
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“GUIDA
STORICO-CULTURALE di LAGO CS
con DIZIONARIO
DIALETTALE laghitano-italiano-inglese”
di Gino e Francesco Gallo
3° Edizione ampliata e rielaborata in 604 pagine e con 200 illustrazioni cerca di preservare le tradizioni culturali e linguistiche di Lago, un paese della Calabria. Il dizionario elenca 4000 parole del dialetto laghitano tradotte in italiano ed in inglese. Un capitolo mostra delle cartine stradali indicando dove alcune famiglie di Lago vivevano negli anni ’50. Altri capitoli descrivono alcune ricette culinarie tipiche laghitane e frasi idiomatiche. Altri mostrano vecchie foto di parroci e sindaci di una volta, ed eventi culturali o sportivi del passato. ENGLISH VERSION The revised and enlarged 3rd Edition (2005) of the book “HISTORIC-CULTURAL GUIDE of the town of LAGO CS with a DICTIONARY of its DIALECT” by Gino and Francesco Gallo has 604 pages with 200 illustrations attempts to preserve the cultural and linguistic traditions of Lago, a town of Calabria in Southern Italy. The dictionary lists 4000 terms of the dialect spoken in Lago and translates them into Italian and English. One section shows old maps of the neighbourhoods labelling specific sites where certain families lived 50 years ago. Another section lists old recipes for cooking the Laghitan food our grandmothers used to make. Also found are idiomatic phrases, old photos, description of ex Pastors and Mayors, and sports and cultural events of the past). N.B.: LIBRO FUORI STAMPA ed ATTUALMENTE NON DISPONIBILE ( AT PRESENT the BOOK IS OUT OF PRINT and thus NOT AVAILABLE)
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APPREZZAMENTI del libro “LAGHITANI nel MONDO” di Francesco Gallo ð dell’Avv. CARMINE BRUNI, laghitano verace, fondatore nel 1961 del giornale “La Frontiera” (dicembre 2007) “…E’ un’opera originale nel suo genere, miniera di notizie, argomentata con l’esperienza diretta e personale d’emigrato da Lago in U.S.A., il quale ha voluto ritornare dopo essersi laureato in Biologia negli Stati Uniti, conseguendo un’ulteriore laurea in Medicina in Italia dove svolge attualmente la professione di medico a Padova. Il dott. Francesco Gallo si porta dentro una nota di malinconica sofferenza per aver dovuto lasciare in tenera età, con tutta la famiglia, il suo paese natale. Ma, con questa sua pubblicazione, rimargina e rende produttiva, culturalmente, siffatta ferita e dà stura a tutta una gamma di considerazioni e di valutazioni, con dovizia inesauribile di dati, di nomi di persone e di un’altrettanto storia di laghitani in U.S.A.. ..”
ð del Prof. Remo Naccarato, nato ad Aiello Calabro CS nel 1933, Professore Ordinario di Gastroenterologia, Direttore della Scuola di Specializzazione presso l’Università di Padova “Nella Seconda Edizione del 2006 del libro ‘LAGHITANI nel MONDO’ vengono delineate anche le diversità sulle attività esplicate dai singoli emigrati e rapportate alle differenti aree di emigrazione e di soggiorno. Si presentano così interi nuclei familiari di artigiani, contadini, professionisti che con impegno e sacrifici hanno affrontato la Diaspora. La stessa lingua è rivissuta nelle varie inflessioni e radici dialettali. Con dovizia di particolari sono riportate le abitudini di svago, di alimentazione, di giochi infantili, spesso confrontati con usi e costumi dei paesi di arrivo. Siamo in presenza di uno spaccato sociale molto variegato e con sfaccettature che ci riportano ai periodi della numerosa emigrazione che ha caratterizzato ampie zone della Calabria. Il volume va letto e meditato con interesse ed impegno per fare propri i numerosi messaggi che certamente l’Autore approfondirà e riprenderà uno per uno.”
ð dell’Astronauta laghitano Mario Runco Jr. (28.08.2006) Mario Runco Jr., figlio di un laghitano, è un astronauto della NASA “…I received the second edition you sent me and I wanted to thank you very much for being kind enough to send me a copy as well as for giving me a credit within the book. By the way I have looked it over and am currently reading it. I must say the book is outstanding. It is obvious you have put a great deal of effort into it for quite some time and it shows. Given my ability in Italian, it will take me a while to read it all. Your efforts are worthy of praise from all Laghitani all over the world. Stay well my friend..” Sincerely Mario Runco
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Parte della RELAZIONE dell’Avv. Alfonso Caruso durante il CONGRESSO sull’ IMMIGRAZIONE ed EMIGRAZIONE (Lago: settembre 2007) EMIGRAZIONE ED IMMIGRAZIONE
In tema di emigrazione ed immigrazione, la mia è la “voce del dissenso” rispetto a certe posizioni conformiste e ad usum delphini di una certa parte politica. E’ una “voce fuori dal coro”, libera da condizionamenti e da logiche di parte. Su questa importante e delicatissima problematica, quindi, la mia analisi non riscuoterà favorevoli consensi. La mia valutazione nasce da un attento ed obiettivo esame degli avvenimenti accaduti e che tuttora accadono, nel rispetto di quel valore “non negoziabile” che è la verità. Mi consola la constatazione che i due terzi degli italiani condividono sull’argomento la mia stessa posizione, che, a scanso di equivoci, non è né intransigente né intollerante. Nessuno nega che il grande flusso migratorio degli extracomunitari, dagli anni 80 ad oggi, rappresenta un importante ed indifferibile opportunità per ragioni demografiche (carenza di nascite, invecchiamento della popolazione e la stessa nostra precedente emigrazione) e per esigenze occupazionali (mancanza di manodopera in particolari settori lavorativi e il poco gradimento da parte dei nostri connazionali dei lavori più umili ed usuranti). E’ indubbio, quindi, che gli immigrati rappresentano una forza necessaria per lo sviluppo della società italiana e che il loro apporto assicura notevoli benefici alla nostra comunità e allo Stato. E ciò anche perché come lavoratori essi costituiscono(quelli regolari e regolarizzati, naturalmente!) una fonte di reddito e di ricchezza in quanto assoggettati a contribuzione. Su questo punto ed in quest’ottica le varie opinioni concordano. E la società civile guarda al fenomeno sociale dell’immigrazione senza ingiustificati allarmismi e pregiudizi ideologici. Ciò che non è condivisibile, invece, è il paralogismo e il parallelismo tra l’emigrazione italiana del secolo scorso e l’attuale immigrazione extracomunitaria che una alcuni ben noti partiti politici italiani tentano di costruire. Il tentativo di richiamare il nostro passato di emigranti, l’odissea da essi vissuta e la nostra storia di grande Paese di emigrazione per equipararla a quella straniera extracomunitaria non trovano riscontro nella realtà. L’accostamento è intellettualmente e moralmente inaccettabile e storicamente infondato e, soprattutto, offensivo ed oltraggioso nei confronti dei nostri emigranti. Una tale ricostruzione dei fatti è strumentale ed ha lo scopo di giustificare, ed ammorbidire agli occhi degli italiani l’ingresso indiscriminato ed illegale degli immigrati nel nostro paese. E così, per il fatto di essere stato un Paese di emigranti, si fa passare per atto dovuto e un debito da pagare nei confronti degli extracomunitari, quello che, invece, è un dovere di accoglienza da compiere, anche se non fossimo un Paese di forte emigrazione, per sentimento alto e nobile di umanità e per ubbidienza al cristiano comandamento di amore verso il prossimo. Il nomadismo è nato con l’uomo e terminerà con l’uomo. Nasce da uno stato di bisogno e di necessità: la mancanza di lavoro nel proprio Paese e miserevoli condizioni ambientali. Da sempre, dunque, emigrare è stato, è e sarà una dolorosa necessità. E non solo per gli italiani.
L’emigrazione italiana L’emigrazione italiana non è stata un’ondata migratoria illegale, selvaggia e clandestina. Salvo pochi casi di clandestinità, essa è sempre avvenuta, dal luogo di partenza al luogo di arrivo, nel pieno rispetto delle leggi interne italiane e degli obblighi e condizioni imposti dai paesi esteri (Nord e Centro America, Canada, America Latina, Australia e Paesi europei). E, una volta insediatisi nel nuovo contesto sociale, è avvenuta nella più assoluta osservanza delle leggi dei nuovi Paesi. L’ammissione degli emigranti era subordinata a rigidi requisiti: innanzitutto, al sistema di programmazione annuale su quote numeriche, sicchè non si poteva superare quel determinato numero. Era, altresì, richiesta una minuziosa specifica documentazione: l’atto di richiamo, l’affidavit dei parenti o del datore di lavoro, il contratto di lavoro, l’attestato di precedente esperienza lavorativa con almeno tre anni di apprendistato, l’accertamento da parte delle varie Ambasciate, mediante esame di idoneità, dell’attività precedentemente svolta, i certificati penale, di carichi pendenti, di buona condotta, di sana e robusta costituzione, del titolo di studio, l’attestato di non essere anarchico o affiliato a partiti totalitari e, per gli uomini il foglio matricolare. L’emigrazione italiana è stata una componente importante nella dinamica demografica-economica del nostro Paese. Dal 1850 a tutto il 1984 trenta milioni di italiani hanno lasciato l’Italia per le grandi emigrazioni transoceaniche ed europee. Tra questi, molti calabresi, costretti a partire in cerca di lavoro e di fortuna per paesi e terre lontane, lasciano casa, affetti familiari e, pagando un pesante e doloroso tributo di sofferenze, di stenti e di sacrifici nella speranza di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche e offrire una esistenza e una vita più dignitosa ed agiata alle proprie famiglie e ai propri figli, prendono le vie del mare, già alla fine XIX secolo, ma soprattutto, tra le due guerre. E ancora più numerosi dal 1946, finita la seconda guerra mondiale e ristabilitesi in Italia la democrazia e le relazioni internazionali.Lago è uno dei “paesi calabresi con la valigia” per l’alto numero di emigrati che supera la 4000 unità, secondo dati ufficiali, purtroppo sottostimati per difficoltà di registrazione e di accertamento, in merito, soprattutto, all’immigrazione interna, riportati, peraltro, nel libro “Laghitani nel mondo” del nostro concittadino, Dr. Franco Gallo, emigrato di ritorno dagli Stati Uniti, attualmente a Padova, dove esercita la professione di medico-psichiatra. Tra il 1885 e il 1920, come annotato dallo stesso Dr. Gallo in un articolo pubblicato sulla rivista “Calabria sconosciuta”, molti laghitani, più di cento, emigrarono a Salida, un paese attualmente di 5700 abitanti delle montagne rocciose del Colorado, Stati Uniti, a 250 Km. a sud-ovest di Denver. A tutt’oggi trecento residenti di questa cittadina risultano essere discendenti di emigrati laghitani e rappresentano il 6% dell’attuale popolazione.
Onore ai nostri emigrati e disonore ai nostri politici Onore al merito ai nostri emigrati che ovunque sono andati hanno sempre onorato e tenuto alto il nome dell’Italia e i valori della nostra civiltà, nel rispetto delle leggi, delle tradizioni e dell’identità degli Stati e delle popolazioni ospitanti. Ed, inseritisi brillantemente nel nuovo tessuto sociale, con il loro lavoro ed ingegnosità, il loro rigore morale e la loro onestà si sono affermati nei vari settori lavorativi, contribuendo alla crescita e al progresso materiale ed economico della loro seconda patria. E così hanno fatto nascere nuove ricchezze per i loro datori di lavoro, per sé e per le loro famiglie, guadagnandosi, con il loro comportamento, stima, considerazione, rispetto e simpatia da parte dei nativi di quei Paesi, che hanno consentito ai nostri emigrati di raggiungere posizioni di rilievo e di prestigio in campo culturale, economico, politico e sociale. Protagonisti straordinari ed eroici del proprio riscatto! “Siamo i treni più lunghi. /Siamo le braccia /le cinghie d’Europa. /Il sudore Diesel./Siamo il disonore /la vergogna dei governi…/Siamo /l’odore /di cipolla /che rinnova le viscere d’Europa… /Milioni di macchine /escono targate /Magna Grecia. /Noi siamo /le giacche /appese /nelle baracche /nei pollai d’Europa. /Non chiamateci da /Scilla /con la leggenda /del sole /del cielo e del mare.” Così canta l’amarezza dei nostri emigranti il poeta calabrese Franco Costabile in questa sua struggente poesia. E così scrive il giornalista scrittore Salvatore Scarpino: “Non fuggivano soltanto dai campi aridi e poveri, fuggivano da esattori e gabellieri, strozzini e ufficiali giudiziari, da un’amministrazione improvvida ed insensibile ai bisogni della gente e della regione”. Insensibilità che, duole dirlo, si è perpetuata negli anni e persiste ancora! Alla spietata analisi dello Scarpino va aggiunta la protervia, lo sfruttamento, i soprusi dei signorotti del luogo, i salari da fame corrisposti a contadini e lavoratori dai proprietari terrieri e dai datori di lavoro. Insensibilità ed ingratitudine delle amministrazioni comunali avvicendatesi negli anni che non hanno saputo gettare un ponte di solidarietà verso i nostri emigrati e creare opportune iniziative che testimoniassero gratitudine e riconoscenza nei loro confronti, stabilire con essi un legame, far nascere organismi e promuovere iniziative per risolvere i loro eventuali non improbabili problemi e necessità in Italia. E, non ultimo, per dire “grazie” per le generose e sostanziose “rimesse” di denaro dirette ai familiari rimasti in paese, le quali hanno contribuito notevolmente a migliorare le condizioni di questi ultimi. Ah, quanto danno ha fatto la miopia degli amministratori e l’ingratitudine dei loro cuori! L’esauriente e dettagliata descrizione dell’emigrazione italiana evidenzia chiaramente e conferma che essa è avvenuta nel pieno rispetto delle leggi italiane e di quelle dei paesi di arrivo dei nostri emigranti…” Avv. Alfonso Caruso
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ARTICOLO
di Sergio Chiatto: “LAGO: dalla ‘Repubblica Partenopea’ alla
rivolta antifrancese del 1806-1807”
(Calabria Letteraria, LV,
aprile-giugno 2007)
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ARTICOLO
su “LAGO” del Prof. Luigi Aloe
(Calabria Letteraria, Longobardi CS,
n. 1-2-3, 1975)
PUBBLICAZIONE sulla STORIA di LAGO
Titolo: VIAGGIO attraverso i DOCUMENTI, in una “TERRA” di CALABRIA CITRA (Lago tra ‘700 e ‘800) Autore: Martino Milito Casa Editrice: ANICIA
Per ORDINARE una COPIA: telefonate ANICIA: 06 5898028 scrivete E mail: info@anicia.it visitate SITO: www.anicia.it
Il libro è composto di 749 pagine (misura A4 21 x 30 cm ), cucite, con 120 illustrazioni a colori .
Sono stati consultati oltre 100 fonti bibliografiche e gli Archivi di Stato, le Biblioteche Civiche e Nazionali di varie città.
Questo libro è il frutto di
un’accurata e paziente lettura di
documenti d’archivio.
Essa ha suggerito all’autore di rendere partecipi di questa riscoperta
sia eventuali “addetti ai lavori”, sia persone interessate a “percorrere
un viaggio” nel passato di Lago. Animato da questo intento, egli ha
riportato fedelmente gli atti raggruppati per argomento e secondo un
ordine cronologico riservando al Lettore l’emozionante approccio diretto
con le fonti. Il contenuto del libro, con la sua ricca messe di documenti inediti, offre molti stimoli ad ulteriori ricerche ed elementi di chiarificazione sulle vicende che hanno segnato indelebilmente l’evoluzione storica, sociale ed istituzionale di tutto il Mezzogiorno: dalle Scuole normali in Calabria in periodo illuministico, alla sfortunata esperienza della Repubblica Napoletana del 1799 con la velleitaria appendice della Rivolta filoborbonica del 1806; dall’abolizione della manomorta, durante il Decennio Francese, alla Rivoluzione del 1848 in fase risorgimentale con la conseguente questione demaniale che, scaturita dalla legge eversiva della feudalità del 1806 e dalla legge sulla devoluzione del patrimonio ecclesiastico del 1807, ha costituito il punto nevralgico dell’intera questione meridionale con problemi ancora oggi irrisolti. L’ excursus su questi eventi consente all’autore di comprovare che tutti i generosi ed eroici tentativi volti ad emancipare le popolazioni meridionali dall’ Ancien Régime, attraverso coraggiose riforme, han dovuto fare i conti con comportamenti che hanno raggirato o asservito le leggi ad esclusivo interesse di pochi svuotandole di efficacia. Questa condotta, reiterandosi nel tempo, è diventata costume, perpetuando, sotto nuove vesti, schemi feudali che continuano, ancora oggi, a soggiogare il Mezzogiorno con il bisogno, l’arretratezza culturale ed il degrado morale rendendo la piaga dell’emigrazione un fenomeno inarrestabile.
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Libri scritti dal Dr. Francesco Gallo
I GRANDI MEDICI CALABRESI DA ALCMEONE A DULBECCO
Autore:
GALLO Francesco Editore: Luigi Pellegrini
E ' un libro di testo per il Corso "Storia della Medicina" per gli studenti di medicina nell'Università Magna Grecia di Catanzaro
eBook SCARICABILE da INTERNET: Pellegrini Editore
N.B.: Contiene una MONOGRAFIA di 30 pagine sulla STORIA SANITARIA di LAGO
E’ un’opera inquadrata di 376 pagine in una vasta realtà, quella della storia della medicina occidentale ed orientale in quanto la Calabria è stata colonizzata da vari popoli diventando un territorio dove varie filosofie e culture si sovrapposero e si fusero alle conoscenze locali dando origine ad una scienza medica multietnica. Questo lavoro offre al lettore una panoramica dei tanti studiosi della medicina rimasti per secoli sommersi nel mare dell’ignoto come era successo ai bronzi di Riace. In questo lavoro si distinguono cinque periodi di sviluppo della storia medico-filosofica calabrese: prima di Alcmeone e Pitagora, di Alcmeone e Pitagora, ellenico e romano, monastico e medievale e rinascimentale, illuminista e moderno.
Nella Monografia "Storia Sanitaria di Lago" dei "Grandi Medici Calabresi":
troviamo MEDICI di LAGO (CS) nel XIX, XX e XXI Secolo affermati fuori Lago
Medici che sono rimasti a Lago XE "Lago" come medici generici
· Don Carmine Zingone: medico dal 1776 al 1796 circa XE "Lago" · Pasquale Mazzotti XE "Mazzotti Pasquale" (1756-1843) medico e Sindaco di Lago XE "Lago" · Michele Veltri (1761-1823) medico, sposò Angela Le Piane di Domanico · Giovanni Antonio Policicchio: medico nella seconda metà del XVII secolo · Francesco Saverio Barone (1774-1849)
Libro di Francesco Gallo pubblicato nel 2014"Le grandi famiglie di Aiello Calabro e l'emigrazione in Usa e Canada tra il 1880 ed il 1930 (in italiano 400 pagine ed in inglese 320 pagine)con 52 fonti bibliografiche, 15 alberi genealogici e 120 illustrazioni
N.B.: LAGO fece parte dello STATO di AIELLO per ben 5 SECOLI
Libro in INGLESE di Francesco Gallo pubblicato in agosto 2014
E' la 3° Edizione con 210 pagine (la 1° Edizione del 2007 aveva 43 pagine e la 2° ne aveva 165) LIBRO SCARICABILE da INTERNET cliccando www.salidaarchive.org/pages/pioneers.html
Questo libro servì da base per la REALIZZAZIONE del GEMELLAGGIO tra LAGO e SALIDA ufficialmente approvato dal Comune di Lago il 15 dicembre 2014
GEMELLAGGIO tra Lago e Salida: APPROVAZIONE UFFICIALE Verbale del Consiglio Comunale di Lago del 15 dicembre 2014
ARTICOLI su LAGO del Dott. Francesco Gallo pubblicati in riviste prestigiose
1. Rivista“Calabria Letteraria” luglio-dicembre 2008: “Come ci si curava a Lago (CS) dal 1920 al 1950”. 2. Rivista “Calabria Sconosciuta” ottobre-dicembre 2010: “Villa Mazzotti di Poliano a Belmonte Calabro". 3. Rivista “Calabria Letteraria” aprile-giugno 2011: "Contributo storico di Lago CS al Risorgimento Italiano". 4. Rivista “Calabria Letteraria” luglio-dicembre 2011: "Giovanni Carusi di Lago-CS, volontario garibaldino nella III Guerra d'Indipendenza del 1866" 5. Rivista “Calabria Sconosciuta”, luglio-dicembre 2013 "Muti ricercatore di tradizioni musicali popolari del Novecento, musicista, compositore ed etnologo di Lago (CS)" 6. Rivista "Formazione Psichiatrica e Scienze Umane", Università di Catania, Anno XXXV n.1, genn.-giugno 2014, "Difficoltà psicologiche dell'emigrato meridionale italiano a New York tra il XIX e XX secolo"
COME CI SI CURAVA a LAGO (Cosenza) dal 1920 al 1950
Dagli anni ’20 agli anni ’50 del secolo scorso come si curavano gli abitanti di Lago (Cosenza), un paese di 6000 abitanti, difficile da raggiungere da Cosenza o da Amantea per la mancanza di buone strade? Anche se allora c’erano cinque validissimi medici condotti (Don Giovanni Gatti che esercitò dal 1890 al 1935, Don Giuseppe Martillotti attivo dal 1890 al 1948, Don Nicola Palumbo dal 1915 al 1947, Don Ferruccio Greco dal 1945 al 1980 e Don Venturino Magliocchi dal 1948 al 1999), una levatrice ( la “mammana” Donna Bianca Campisani attiva fino al 1949), una Spezieria ed una farmacia, quella di Don Celestino Posteraro, la mancanza di mezzi e di strutture medico-sanitarie e la diffidenza dei pazienti non permettevano l’erogazione di una buona assistenza sanitaria. Al paese la presenza di medici risale ad almeno due secoli fa. Don Pasquale Scaramelli di Lago nel 1809 era un Magister di Medicina, Filosofia e Farmacia, laureato presso la Scuola Medica Salernitana e medico nei Reali Eserciti Borboni. La sua tomba si trova all’interno della Chiesa della Madonna dei Monti di Lago.
Diploma in medicina conferito nel 1809 dalla Scuola Medica Salernitana a Don Pasquale Scaramelli di Lago
Nel 1140 il Re Ruggero II (1130-54) di Sicila con un editto, proibì a chiunque di praticare l’arte medica senza aver prima sostenuto un esame. Nel 1240 il suo pronipote l’ Imperatore Federico II di Svevia (1194-1250) proclamò che tutti i candidati alla abilitazione della professione medica dovevano sostenere un esame nella Scuola Medica di Salerno dopo avere studiato “Logica” per tre anni e “Medicina e Chirurgia” per altri cinque anni ed avere completato un “tirocinio pratico” di un anno. Questo editto ridusse il numero di medici praticanti che in questo modo risultarono insufficienti rispetto al reale bisogno. Opportunisticamente, gli speziali (“farmacisti” dell’epoca) ed i “praticoni” colmarono il vuoto determinato dalla scarsità di medici abilitati, spacciandosi per conoscitori della clinica e della terapia medica. Nel Medioevo, gli speziali si imposero come medici generici ed odontoiatri, ma esistevano anche dei ciarlatani che si professavano medici ed estrattori di denti, facendo mostra della loro bravura per strada. A Lago, fino al 1950, arrivavano in Piazza Duomo dei mistificatori che vendevano dei prodotti per eliminare l’odontalgia, per estrarre dei denti senza utilizzare delle pinze e per sciogliere i calcoli renali ed epatici.
Le pratiche d’ igiene pubblica al paese di Lago come in altre località della Calabria, erano pessime: “jettavanu ‘e hamazze da Timpa di Sali, c’eranu tanti surici, tante musche, pidocchi e pulici, sputavanu ‘nterra, i rinali i svotavanu da hinestra, avianu vagliciallu sutta a casa, un c’eranu cessi e acqua corrente, e tanti piccirilli jianu scavuzi”. C’era l’abitudine di allevare i maiali nei seminterrati sotto le abitazioni (“catuaji”). Per strada si vedevano animali in libertà (cani, maiali, capre, asini e galline) che espletavano i loro bisogni fisiologici ovunque si trovassero. Nelle case non c’era l’acqua corrente e bisognava procurarsela con “cucumialli, pignate e cassarove vecchie” e ci si lavava usando bacili (“vacili”) o “intra na quadara” (“calderone”). La scarsa pulizia del corpo e degli alimenti favoriva le dermatiti, le gastroenteriti, le parassitosi da pidocchi e le elmentiasi. Le mamme ispezionavano il cuoio capelluto dei figli e “ …circavanu i piducchi e i lindini, le stricavanu a capu cu petroliu e si i piducchji un murianu, i mandavanu i higli ‘ndo lu varviare ppe li hare carusare a zeru; intra ‘e case c’eranu puru ‘e pompe hatte di quadarari ppe spruzzare u petroliu o u DDT ed ogni tantu arrivavadi ‘e Cusenza nu camiu ppe spruzzare u disinfettante ‘ppe le vie du paise” A Lago, dunque, come in tante altre località, il compito del medico era particolarmente difficile e proprio per questo, assieme al farmacista e alla levatrice, il medico condotto era una figura di grande prestigio e di importanza per la sanità pubblica. Pur avendo poche risorse a disposizione, egli salvava molte vite umane ed era un ‘tuttologo” in quanto si occupava di molte specialità: ostetricia, chirurgia, ortopedia, pediatria, odontiatria ed infettivologia, facendo partorire a domicilio, suturando ferite, svuotando ascessi, estraendo denti, riducendo fratture e curando malattie infettive come la tubercolosi, il tifo e la malaria. Decidere di ricoverare un paziente presso l’Ospedale di Cosenza era un evento molto raro e quasi sempre veniva vissuto come un fallimento da parte del medico e come una costrizione da parte dell’ammalato (si diceva infatti che purtroppo l’ammalato era “jutu a finire a lu ‘Spitale”). Non essendoci il servizio di Guardia Medica, i medici lavoravano anche di notte, nei prefestivi e nei festivi. Percepivano dagli assistiti un piccolo onorario ma invece dei soldi, dai poveri accettavano anche “ova, casu, suppressate e sazizze” in quanto la loro era una missione e non una attività commerciale. Ispezionando, palpando ed auscultando il paziente, spesso riuscivano a fare diagnosi e si pensava che la loro arte era quasi magica per il modo in cui riuscivano a capire cose misteriose e nascoste, per il fatto che salvavano i loro pazienti dalla morte. La loro presenza e le loro parole erano essenziali per la guarigione: i medici li avevano fatti nascere con l’aiuto della “mammana” ma erano ancora lì, pronti a sarvarli dalla morte. In questo periodo il medico vaccinava tutti i bambini contro il vaiolo e questa pratica lasciava una cicatrice sul deltoide che serviva anche per ricordarci il loro grande contributo al servizio della sanità pubblica. Ogni anno in primavera, su consiglio dei medici laghitani, e seguendo una tradizione ereditata dalle loro nonne, le mamme costringevano i figli a purgarsi con olio di ricino. Inoltre, c’era l’abitudine di aiutare lo sviluppo fisico dei ragazzi somministrando loro dell’ olio di fegato di merluzzo, un olio di sapore sgradevole e di colore giallo chiaro, presente nel fegato del merluzzo, che contiene una delle fonti naturali più importanti delle vitamine A e D. Allora si moriva di morbillo, tifo, poliomielite, difterite, tetano, epatite, e tubercolosi. A Lago, per i pazienti con gravi malattie infettive non curabili, c’era una stanza di isolamento chiamata Lazzaretto nella Sagrestia della Chiesa della Madonna dei Monti al Pantanello. Per i tisici c’era il tubercolosario detto “Istituto Mariano Santo” di Cosenza situato sopra un colle e circondato da boschi. Alla “Huntanella” sopra il Bivio di Lago (la proprietaria era Donna Paola Sparano, moglie del Preside dell’ Istituto Agrario di Cosenza) c’era una succursale di questo Istituto dove i laghitani affetti da tubercolosi venivano curati dal personale inviato dal tubercolosario cosentino. Anche questa struttura paesana essendo circondata da boschi in una zona periferica più alta rispetto al centro storico di Lago, aveva l’aria più ricca di ossigeno. In questo Istituto per guarire i pazienti, si utilizzava un metodo meccanico per provocare un pneumotorace inattivando un polmone alla volta. Dopo il 1943 arrivò dagli USA la streptomicina come cura anti-tubercolare. Come terapia anti-ipertensiva, oltre ai farmaci, i medici praticavano anche dei salassi applicando delle sanguisughe sulla pelle degli ammalati che sentivano un sollievo temporaneo in quanto, diminuendo la massa sanguigna, si abbassava la pressione arteriosa. Per rinforzare il malato durante la convalescenza, non c’era l’abitudine di prescrivere delle vitamine e dei sali minerali ed i medici consigliavano una vita sana all’aria aperta con tanto riposo, e “pane ‘e grandianu e nu brodu ‘e picciuniallu”.
Chiesa della Madonna dei Monti dove c’era il “Lazzaretto”
Al paese e specialmente in campagna, oltre alla medicina ufficiale, c’era quella alternativa formata da erboristi, da tiraossa e da maghi che pur non avendo nessuna preparazione scientifica, esercitavano la loro “arte” con riti, pozioni, elisir, massaggi, consigli e magie. Una figura molto apprezzata era l’ erborista di Lago (ad es., Giuseppe Chiatto 1919-1999) che preparava sciroppi, decotti, tisane, lozioni, unguenti e creme per alleviare alcune malattie. Nei decotti l’essenza officinale veniva essiccata e triturata, fatta bollire con acqua ed infine filtrata, invece nelle tisane l’essenza veniva posta in un recipiente, ricoperta con acqua bollente e filtrata. Anche i barbieri, che sapendo armeggiare forbici e rasoi, erano pronti ad incidere la cute per eliminare piccole neoformazioni come dei nevi o degli ascessi. Per i problemi psicologici come i conflitti interpersonali di coppia, l’agitazione psicomotoria, l’insonnia, l’anoressia, gli attacchi di panico e l’ideazione suicidaria, non essendo ancora accettata la psichiatria come scienza, i pazienti si recavano dai “maghi” o dalle “magare” per togliere l’affascino. I disturbi mentali gravi come la schizofrenia e la paranoia rappresentavano una vergogna per i parenti del paziente e ciò causava l'isolamento sociale dell’ammalato stesso che veniva rinchiuso in casa senza stimoli o terapia, mentre quelli più gravi erano ricoverati nei manicomi dotati di scarsissima assistenza e con poco rispetto della dignità umana.
Le seguenti terapie, alcune basate su false credenze, altre su dei validi principi farmacoterapeutici, sono delle cure alternative e primitive utilizzate a Lago tra il 1920 ed il 1950 per risolvere alcuni disturbi: 1. cefalea (“duvure é capu”): si tagliavano dei dischetti di cipolla selvatica (“gresta”), si avvolgevano con della carta e si applicavano sulle tempie per un paio di ore 2. colica addominale (“male é panza”): si beveva una soluzione di acqua e zucchero o di menta, oppure della camomilla. 3. orecchioni (“ricchiàjina”): si fasciava un osso mandibolare (“ganguvaru”) di un cinghiale sotto l’orecchio del paziente, tenendolo fisso per pochi minuti mentre si recitava una formula magica 4. carbonchio (“carvunchiu”): specialmente se subascellare (”sutta i titilli”), si pestavano 100-200 grammi di semi di lino (“linusa”), si facevano bollire in acqua per pochi secondi, e si raccoglivano in un sacchetto di stoffa per poi applicarlo sui carbonchi che spesso crescevano a grappoli o “ a ficuzze” (il medico di Lago, dott. Nicola Palumbo, prescriveva “’a lisusa” per fare maturare gli ascessi e quando si vedeva un puntino giallo all’apice della tumefazione “hacianu a minnuzza” egli incideva la pelle per svuotare l’ascesso dal pus) 5. fratture e slogature: si sbattevano due o tre bianchi d’uovo, vi si versava della crusca di segale (“caniglia ‘e jermanu”) e un pò di farina di grano (“harina janca”) per ottenere un impasto semi-liquido ( “picata”) dove vi si immergevano dei pezzi rettangolari di stoffa di lino che venivano imbevuti e poi avvolti attorno alla zona fratturata (quando si asciugavano, diventavano duri come un apparecchio gessato senza mai irritare la pelle) 6. ferite sanguinanti: si mettevano delle ragnatele come sostanza emostatica (“nu pappice ‘ppe agguttare ‘u sangu”) che diventava una specie di cerotto emostatico oppure si utilizzava il ”tartaro” prodotto all’interno della cintura (“u lippu da curria”) per il contatto del cuoio con il sudore corporeo 7. ferite: si applicava un impacco di foglie di pulicaria (“pulicara”) pestate nel mortaio (la pulicaria è una pianta erbacea con foglie lineari e infiorescenze a spiga) oppure si usava il “tartaru da curria” 8. ascesso dentario: si faceva bollire delle foglie di lattuga verde che venivano poi utilizzate per fare degli impacchi caldi sul dente ammalato 9. tosse: si preparava un decotto di malva da cui si otteneva un infuso che il malato doveva bere
Come ho già descritto, per potersi abilitare alla professione medica, Federico II di Svevia aveva imposto nel 1240 l’obbligo di studiare per nove anni nella Scuola Medica di Salerno. Ciò ridusse il numero di medici praticanti e gli speziali colmarono il vuoto determinato dalla scarsità di medici abilitati, sostituendosi a loro. Spesso l’autorità pubblica (sovrano, conti, baroni) si limitava a fissare il numero delle spezierie ed ad approvare gli statuti (codici di autodisciplina) redatti dalla categoria stessa. Negli statuti venivano stabilite le norme deontologiche e le regole per l’abilitazione alla professione. Per aprire una spezieria, lo speziale doveva versare una somma di denaro alla autorità locale. Con l’arrivo dei francesi a Lago nel 1806, cessò il regime di concessione e la nuova autorità pubblica si limitò in un primo tempo a confermare la legittimità delle spezierie esistenti. Sotto il regno di Murat i medici, i chirurghi, i dentisti e i farmacisti vennero invitati a depositare il loro diploma presso la nuova Autorità, e lo “speziale” venne chiamato “farmacista”. La legge del 21 germinale, anno XI (1803) aveva disciplinato l’esercizio delle farmacie: venne stabilita l’incompatibilità tra professione medica e quella farmaceutica, proibita la vendita dei rimedi segreti e fissate le norme sui veleni. L’apertura di nuovi esercizi non era più subordinata alla concessione (privilegium) a pagamento, da parte del sovrano, ma ad una semplice autorizzazione (la legge del 25 termidoro, anno XI del 1803, istituì le scuole di Farmacia). Presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli vennero istituite per la prima volta alcune cattedre di materie farmaceutiche in quanto non esisteva la Facoltà di Farmacia. Nel 1812 Gioacchino Murat abolì la Scuola Medica Salernitana il cui prestigio andò decadendo con il sorgere e l’affermarsi delle Università. La spezieria (“ ‘u Speziariu”) di Lago di Don Vincenzo Palumbo (1848-1919 -foto-) era una drogheria attiva fino al 1930 ed era situata al piano terra del Palazzo Palumbo in Piazza Duomo di Lago. Potremmo definirla una specie di “drug store” laghitano. Già nel 1753 Damiano Chiatti di Lago, anni 40, era proprietario di una “spezieria” nel Largo di San Nicola di Lago dove lavorava il ventiduenne Bruno Scanga.
I collegi e le corporazioni degli speziali godevano di un notevole prestigio che si manifestava pubblicamente in occasione delle feste cittadine, soprattutto nelle processioni, in cui tutte le autorità e le corporazioni sfilavano in ordine d’importanza. Infatti a Lago, come in tante altre località, il Parroco, il Sindaco, il Medico, il Maresciallo e lo Speziale o il Farmacista erano figure di grande prestigio. Oggi molti farmaci vengono prodotti per sintesi chimica nei laboratori farmacologici ma nel passato, tutti i medicamenti derivavano dalle piante o da sostanze naturali. Negli Orti Botanici come quello della Scuola Medica di Salerno o quella dell’Università di Padova, si coltivavano delle piante medicinali che si studiavano per comprendere le loro proprietà terapeutiche. Il libro “Erbario essiccato” del 1804 scritto dal laghitano Domenico Coscarelli è un manoscritto esemplare che raccoglie e descrive centinaia di specie del regno vegetale e che descrive le virtù curative delle piante e i luoghi in cui esse crescono. Il Coscarelli era nato a Lago il 29 giugno 1772, figlio di Mario (o Carlo) Coscarelli e di Diana Scanga, e fu un Portabandiera del Reggimento Principessa Reale al servizio di S. M. Ferdinando IV Re di Napoli. Per quanto riguarda l’aspetto economico, oltre alla somministrazione di sostanze chimiche, le spezierie potevano contare sulla vendita di certi articoli e di certi generi alimentari per i quali avevano ottenuto il monopolio, ad esempio, la fabbricazione delle candele di cera, della confetteria, del caffè, del cioccolato e dello zucchero.
Foto: Palazzo Palumbo in Piazza Duomo, al piano terra, fino al 1930, c’era una “Spezieria” ed al primo piano, fino al 1947, c’era lo studio medico di Don Nicola Palumbo
Arrivando ad un periodo più vicino a noi, la farmacia del dott. Celestino Posteraro (1887-1964 –foto-) in Corso C. Battisti fu aperta nel 1930 e venduta nel 1963 al dott. Francesco Bilotta e che oggi si è trasferita in via P. Mazzotti. Don Celestino si era laureato in Farmacia presso l’ Università di Napoli ed era un uomo colto ed intelligente, un fine dicitore dotato di grandi doti umanistiche e di una splendida e piacevole vena ironica. Nella sua farmacia si potevano acquistare alcuni fitoterapici ma anche dei prodotti galenici in forma di cartine, compresse, cachet, tinture, soluzioni, colliri, tonici, creme ed unguenti. Alcuni di questi prodotti li preparava lui stesso mischiando alcune sostanze chimiche unite a degli eccipienti. La Farmacia veniva fornita dai rappresentanti della Ditta Jorio di Cosenza, grossisti di medicinali che periodicamente andavano da Don Celestino per consegne, consigli ed ordinazioni. Rimaneva aperta spesso fino a tarda ora per soddisfare le varie richieste dei pazienti e per permettere a Don Celestino di preparare dei prodotti galenici (pastiglie, bustine, sciroppi, decotti ecc). In essa, al calar della sera, si ritrovavano le persone più note del paese: il medico, il notaio, il sindaco, il maresciallo dei Carabinieri, uniti nell’ascoltare don Celestino e gli altri convenuti per i commenti politici e culturali del giorno ed per il “gossip” locale.Di giorno invece c’era un via e vai di “ pitusi mpruvenzati, tagliati, ammaccati e rasc-cati, rugnusi o arrestujinati; viacchi ‘nciutati, accruccati, catarrusi, scudillati, zuappi, acciuncati, guallarusi, surdi o cecati; himmine prene o ‘nchiattate, ma ‘a mavatìa chjù grossa eradi ‘a ‘ngnuranza pecchì un se hidavanu ne ‘de medicine ne di miadici e jianu a se hare ‘u cuntra-affascinu ‘ndo la magara. Mario Posteraro, figlio di Don Celestino, conserva ancora la bilancina che utizzava il padre per pesare scrupolosamente i reagenti e gli eccipienti da unire insieme seguendo le ricette galeniche dei medici. Oltre alla bilancia, la farmacia era dotata di altri strumenti e apparecchi indispensabili: un percolatore, un bagnomaria, delle pipette, dei cilindri graduati, dei palloni di vetro, degli imbuti, dei setacci, delle pilloliere, dei filtri e dei mortai di varie dimensioni. C’era anche un testo con l’elenco e la descrizione di tutti i farmaci ( la prima Farmacopea Ufficiale curata da parte del Regno d’Italia fu pubblicata nel 1899), testi di tecnica farmaceutica e di legislazione. La farmacia ormai è scomparsa ma sono rimasti nella memoria i mobili di legno con i ripiani dove poggiavano i vasi di ceramica contenenti i fitoterapici come l’aloe, l’eucaliptolo, il miele rosato, l’estratto di belladonna, la valeriana ed il biancospino e i cassetti dentro i quali c’erano le droghe per preparava decotti, infusi, cartine e tinture.
Mobili della farmacia: quello più importante era un armadio-credenza diviso in due parti:
era divisa in 3 reparti:
Alcuni dei primi farmaci pronti per l’uso nella Farmacia di Don Celestino (1940):
Quale erano le forme farmaceutiche che preparava Don Celestino?
Avendo davanti la ricetta galenica del medico dove era specificato il dosaggio (in g, mg o ml ) di ogni ingrediente necesarrio per ottenere un determinato medicamento, il farmacista preparava varie forme di medicinali tra i quali:
Alcuni disinfettanti disponibili nella Farmacia di Don Celestino
In conclusione, oggigiorno potrebbe sembrare che il farmacista sia semplicemente un commerciante di farmaci ma se analizziamo la storia della scienza farmaceutica, dovremmo apprezzare come siamo arrivati ad avere dei farmaci confezionati, pronti per l’uso. Di conseguenza non si aspetta più uno o due giorni per la consegna dei medicamenti. Con le confezioni pronte si è più sicuri dell’igiene, della purezza e del principio attivo del farmaco. Inoltre, spostandoci da una città o da una nazione ad un’altra, si trova il medesimo farmaco per permetterci di continuare una determinata cura. Ricordiamoci inoltre che attualmente esistono dei farmaci per risolvere tantissimi problemi di salute e che il prontuario farmaceutico continua ad arricchirsi ogni giorno. Infine, il farmacista, non essendo più occupato a preparare molti preparati galenici, può dedicare più tempo per aggiornarsi, per spiegare ai pazienti gli effetti dei farmaci ed a consigliarli sulle modalità d’’uso, facendo onore alla nobile ed antica professione del farmacista.Un analogo discorso si potrebbe fare per i nostri medici. Spesso telefoniamo “allu dutture ppe ne hare preparare a solita ricetta. Illu, mentre stamu ancora parrandu ppe telefunu, cu nu jiditu clicca nu tastu du compiuter e da stampante, subbitu esciadi ‘a ricetta. Un perda tiampu ppe scrivare ‘e ricette Galeniche cu se haciadi na vota. Eccussì tena chjiù tiampu ppe s’ajjurnare, ppe jire alli cumbegni, ppe lejare, visitare i mavati e ppe ne hare stare tutti miagliu. Ma n’amu ‘e dimenticare i tiampi brutti de magare e di mbrugliuni puru ca oja c’iadu u rischiu ca u miadicu u ne guardadi nemmeno ‘mpaccia e all’ambulatoriu se ha tuttu ‘mpressa senza mai jatare. Hinisciu agurandume ca se pagine c’aju scrittu sunu servute ppe capire miagliu u progressu c’avimu hattu cuntru ‘e mavatie.”
VILLA MAZZOTTI di POLIANO a Belmonte Calabro (CS)
Villa Mazzotti XE "Mazzotti" a Poliano XE "Poliano" : da sx a dx, Torre, Guardiola, Palazzetto romano, Dimora e Chiesa di S. Maria di Loreto (FFG)
Non capita tutti i giorni di sentirsi immersi in un’altra epoca. Ciò succede quando una località o delle costruzioni ci fanno rivivere mentalmente il passato, un passato glorioso, pieno di storia, di cultura e di sani principi tra i quali il lavoro, la meditazione e lo svago. Fu proprio questo che ho provato quando il 6 settembre 2009 sono stato invitato da Don Silvio Mazzotti, ex Sindaco di Lago, a visitare la Villa Mazzotti di Poliano (Belmonte Calabro CS) che si trova a circa duecentocinquanta metri di altezza su di una collina ai cui piedi corre la Superstrada 278. Entrando nella Villa di mi sono emozionato osservando dall’alto i panorami montani ed il mare di Amantea (CS). Sono rimasto incantato dagli svariati colori, il blu del mare, il verde intenso della vegetazione e le varie sfumature di giallo-marroncino delle costruzioni.
Foto: Viale d’entrata (A), Mura (B), Torre (C), Guardiola (D), Serra (E), Dimora (F) e Chiesetta di S. Maria di Loreto
A sud, una valle verde che arriva fino al Torrente Catocastro per poi risalire arrivando all’incantevole panorama di San Pietro in Amantea. Si capisce perché il luogo fu scelto per costruirvi un convento dove i frati vivevano lontani dai luoghi abitati, evitando così le distrazioni mondane per essere più in sintonia con il Creatore. A sinistra del cancello d’entrata alla Villa c’è la Torre, la Guardiola ed un Palazzetto stile romano (ex Serra), sul fondo si trova la Dimora padronale (ex “Convento”) e a destra, la Chiesetta di Santa Maria di Loreto, tutte costruzioni di grande valore architettonico. All’interno delle mura di cinta ci sono circa 2 ettari di terreno mentre altri 10 ettari si trovano all'esterno delle mura che arrivano fino al Torrente Catocastro e comprendono i due ruderi sotto la superstrada 278. Sotto la Villa Mazzotti si intravedono delle terre e due casolari di proprietà della famiglia Turchi e della famiglia Veltri. Don Silvio mi racconta che all’'interno c’erano dei giardini, con qualche albero da frutto, all'esterno vi erano uliveti e vigneti. Il luogo più rappresentativo della Villa è sicuramente la Dimora che occupa una posizione centrale nella planimetria complessiva. Ospitava le celle dei monaci, l’abitazione del Priore e dalla cappella sorgeva un elegante campanile. Le mura ed il giardino della Dimora delimitano un largo viale che dalla Chiesetta permette una passeggiata fino alla Torre e alla Guardiola passando per la Serra.
Palazzetto stile romano utilizzato come vivaio per piante (in fondo la Dimora padronale)
Palazzetto stile neoclassico di Villa Mazzotti a Poliano fino al 1916 utilizzato come serra e successivamente come dimora dei coloni (famiglia Bisardi e Veltri) fino al 1992. Oggi è stato modificato ricavando due camerette, una sull'altra, ed un piccolo solaio.
La Chiesetta di S. Maria di Loreto catalogata nei Registri Vaticani, venne costruita agli inizi del XV Secolo e già nel 1419 risulta che aveva dei Rettori e che era alle dipendenze dell’arcidiocesi di Cosenza. Nel 1561 alla Chiesa fu annesso un Monastero, retto ed abitato dai monaci claustrali del Terz’Ordine Regolare di S. Francesco d’Assisi e che fu soppresso probabilmente nel 1652, in base alle disposizioni di Papa Innocenzo X.
Foto: Portone d’entrata della Chiesetta di S. Maria di Loreto in stile gotico della Villa Mazzotti a Poliano. A fianco alla Chiesa c’era una Canonica dove fino al 1900 circa abitava il sacerdote che svolgeva le funzione religiose.
L’ex Convento fu confiscato il 7 agosto 1809 in base alla Legge Eversiva della Feudalità emanata dalla Repubblica Partenopea governata da Gioacchino Murat e la proprietà fu acquistata XE "Murat Gioacchino" nel 1812 per 16640 ducati dal filo-francese Pasquale Mazzotti (1756-1843)–foto- XE "Mazzotti Pasquale" XE "Mazzotti" , medico e Sindaco di Lago. (L’atto di vendita fu firmato dal notaio laghitano Don Giambattista Barone il 10 marzo 1812: Archivio Statale CS, Finanze, atto notarile no.2729 XE "Barone Giambattista" ).
Alla morte di Don Pasquale Mazzotti (1756-1843), medico e sindaco di Lago, la Villa venne ereditata dal figlio Don Francesco Saverio Mazzotti (1795-1857), poi dal pittore Don Pasquale Mazzotti (1821-1885) il quale la lasciò al figlio Don Francesco Saverio Mazzotti (1854-1916) e successivamente ne divennero eredi Don Peppino Mazzotti (1908-1979) e Don Placido Mazzotti (1888-1968). Nel 1968 quella di Don Placido fu ereditata dal figlio Don Silvio Mazzotti XE "Mazzotti Silvio" (n.1930) mentre la parte di Don Peppino fu ceduta nel 1977 a Don Armando Mazzotti (1924-2007), figlio di Don Pasquale (1887-1956) e Donna Gemma Silvagni di Grimaldi (CS). Dopo l’acquisto nel 1812, il “Convento” fu riadattato a Dimora da Don Francesco Saverio Mazzotti, figlio dell’acquirente, e abbellito dal nipote Barone Pasquale Mazzotti (1821-1885) in quanto artista e architetto (fece costruire la Torre e diede la forma gotica alla Chiesetta facendosi guidare dal suo maestro Domenico Morelli (1823-1901). Quando le modifiche furono completate (verso il 1847), i Mazzotti iniziarono ad utilizzarla non solo come residenza estiva ma anche come fissa dimora fino al 1916, data di decesso di Don Francesco Saverio Mazzotti (1854-1916). Infatti era preferibile stare a Poliano invece che a Lago in quanto si trova vicina alla città balneare di Amantea e alla strada che costeggia il Tirreno che porta a Napoli dove i Mazzotti avevano molti interessi e varie parentele acquisite come i Rega (suoceri di Don Francesco Saverio, padre del pittore) ed i Nunziante (suoceri di Don Pasquale, il pittore). A Catania, invece, era nata Donna Dorotea Bonanno, moglie di Don Francesco Saverio (1854-1916).
Foto: Il Barone XE "Barone" Francesco Saverio Mazzotti XE "Mazzotti Francesco Saverio" XE "Mazzotti" con la madre (Marchesa Caterina Nunziante XE "Nunziante Marchesa Caterina" ) che passeggiano davanti alla Dimora della Villa di Poliano XE "Poliano" nel 1890 circa (Archivio fotografico di Don Silvio Mazzotti)
ARMANDO MUTI (1903-1983) nato a Lago (CS) –foto- chiamato il “Bartòk[1] del Cosentino”, fu musicista, compositore, etnografo, etnologo ed editore. Dall’ Atto di Nascita dell’Archivio di Stato di Cosenza XE "Cosenza" , risulta che Ermando Muto è nato il 12 marzo 1903, nella Strada Piazza, con il nome di “Ermando Filiberto Achille”. Era figlio di Giuseppe Muti (n.1866), proprietario di 36 anni, e della nobildonna Teresina Federici XE "Federici Filomena" XE "Federici" (1869-1942) di Vincenzo. Il nome “Ermando” fu rettificato in “Armando” il 12 novembre 1929 dal Tribunale di Cosenza XE "Cosenza" . Apparteneva ad una famiglia benestante che abitava in via Cesare Battisti, una delle principale strade d'ingresso al paese nativo. Sul suo biglietto da visita e sulla sua carta intestata (foto) si leggeva: "Compositore e Direttore d'Orchestra, pianista, maestro di canto corale, maestro di armonia, contrappunto e fuga, maestro di canto principale e canto gregoriano, storico, critico ed esteta musicale" Armando era il nipote di due sacerdoti di Lago, Don Nicola e Don Gabriele Muti ed aveva quattro fratelli: · Francesco (1896-1928) insegnante · Gabriele Nicola Emilio (1897-1981) ragioniere, revisore dei conti del Comune di Lago · Nicola Mariano (n.1901) farmacista di Lago · Franceschina (n.1910) Frequentò il Conservatorio di Napoli e si diplomò in “Composizione, Strumentazione per Banda e Canto Corale” diventando musicista, compositore, etnografo, etnologo ed editore. Nel 1923 all'età di venti anni, iniziò a studiare le diverse etnie popolari dei vari paesi del cosentino che amava conoscere, visitare e spesso peregrinare nei piccoli centri agricoli dell’hinterland bruzio. Raccolse molte notizie e informazioni riordinandole, trascrivendole e rielaboraldole. Essendo politicamente favorevole al fascismo, fu sostenuto e favorito dal Regime. Elogiò Benito Mussolini nei suoi vari articoli apparsi su “Cronica della Calabria” e compose l’Inno Femminile Fascista e l’inno “Le Vie dell’Impero”. Scrisse l’opera lirica “Giuditta” in tre atti, “Laura” un melodramma in un atto, Il mio calendario raccolta di 365 liriche per canto e pianoforte e Abissinia, Suite eroica in sei episodi, premiata con la medaglia d'oro, una suite eroica calabrese, in memoria dei calabresi caduti in Africa Orientale. Nel 1928 partecipò e vinse il Concorso per Direttore della Banda Musicale della città di Cannara (PG) in Umbria. Lettera del 21 febbraio 1928 di Armando Muti al Podestà di Cannara (PG) dove il Maestro dichiara la sua disponibilità di accettare il ruolo di Direttore della Banda Musicale del luogo che ebbe origine nel 1843. Muti scrisse: “Il sottoscritto è disposto di accettare il posto di M° Direttore della Banda di codesta città. Egli conosce benissimo il pianoforte, l’organo, l’harmonium ed altri strumenti, ed i titoli di cui è munito Ella li troverà elencati e stampati su questo foglio, pronto ad esibirli non appena sarà costà. Mancano gli attestati di studio rilasciati da eminenti personalità artistiche e le Medaglie d’Oro con le quali sono state premiate molte sue composizioni. Se Ella è disposta a nominarlo, gli faccia tenere al più presto foglio di nomina ed egli raggiungerà subito la residenza. Con osservanza.” M° Armando Muti, via Gaeta, 20 Cosenza (età anni 25) Il 23 marzo 1928 il Podestà di Cannara (Ettore Pesci-Majolica) lo nominò Direttore della suddetta Banda Musicale ma con la lettera del 26 marzo 1928 egli rifiutò l’incarico per motivi di salute e di famiglia. Scrisse al Podestà: “L’eccessivo lavoro e le troppe disgrazie abbattutesi sulla mia famiglia hanno scosso fin troppo il mio sistema nervoso e la mia salute ne è stata grandemente minorata”. Infatti, nel marzo 1928 la morte improvvisa del fratello Francesco alla giovane età di 32 anni, provocò alla famiglia un indicibile e profondo dolore. Come si legge nel libro di Fabio Bettoni ed Ottaviano Turrioni il vincitore "... del concorso risulterà, tuttavia, il Maestro Armando Muti di Cosenza (sic!), un musicista di appena 25 anni, dalle credenziali eccellenti, come testimonia una lettera del noto prof. Raffaele Caravaglios al podestà di Cannara, in cui leggiamo che il suo allievo è un giovane colto e molto appassionato dell'arte; ha già ottenuto varie medaglie d'oro quale premio ad alcune sue composizioni; conosce benissimo il pianoforte, l'organo, l'harmonium ed altri strumenti. Le informazioni sulla capacità professionale e sulla condotta morale-politica nonché sul carattere di Muti risultono ottime: in questo senso si esprimono sia il podestà che il comando della compagnia dei carabinieri di Cosenza. Anche per queste ultime ragioni, funzionali al regime, Muti è dichiarato vincitore del concorso ed invitato a prendere servizio il 1° aprile 1928, con l'avvertimento, però, che la 'nomina ha carattere assolutamente provvisorio' e dura 'fino all'espletamento del regolare concorso'... "[2] Alcune opere di A. Muti, in ordine cronologico, sono:
· Inno femminile fascista 1931 · La prece dei balilla 1933 · I canti di Falconara Albanese 1933 · Inno del dopolavoro 1934 · Inno delle giovani italiane 1935 · Tramonto del nido (lirica) 1937 · Il mostro della montagna (bucolica drammatica per cinematografia) 1937 · Lo sguardo di un’illusa 1938 · Malinconia sul mare (lirica) 1938 · Inno femminile fascista 1939 · Tango delle lacrime 1939 · Canti tradizionali calabresi (100 stornelli calabresi) 1940 · Zingara (canzone per canto) 1940 · Incursione aerea, impressione futurista per pianoforte 1941. · Africa nella, non disperar! (canto patriottico) 1942 · Marcia nuziale 1942 · Il poema di Dolbeau 1957 · Sogno d'amore sul Bosforo (lirica) 1958
Dagli anni ’30 agli anni ’60 del Novecento ha composto un'opera costituita da 56 fascicoli dattiloscritti ed inediti chiamati “Tradizioni Etno-musicologiche della Calabria” conservati nella Biblioteca Civica di Cosenza, XE "Cosenza" frutto di un'approfondita ricerca sulle memorie, sulle usanze e sulle consuetudini musicali,culturali e etniche di vari paesi calabresi e che includono proverbi, canti popolari, musiche strumentali, fiabe e testi poetici. I 56 fascicoli hanno i seguenti titoli:
Giovanni Carusi di Lago-CS, volontario garibaldino nella III Guerra d'Indipendenza del 1866
Il laghitano Giovanni Gaetano Carusi ed il fratello Giuseppe, dal 8 maggio al 15 agosto 1866 parteciparono, come volontari garibaldini, alla III Guerra d’Indipendenza per liberare il Trentino ed il Veneto dall’Austria e per questa sua impresa eroica, Giovanni fu promosso a Luogotenente. Egli descrisse la sua esperienza nel libro “Il mio viaggio e le mie avventure nella Guerra del 1866 come volontario garibaldino” pubblicato nel 1867 a Cosenza dalla Tipografia dell'Indipendenza (foto a destra: copertina del libro). In questo articolo cercherò di trasmettere il suo entusiasmo riportando alcune descrizioni del testo. Il Carusi, sebbene avesse solo 24 anni di età ed ancora studente universitario, era animato da grandi ideali patriottici che lo spinsero a seguire il Generale Garibaldi per poi descrivere questa impresa nel suddetto libro, tuttora conservato nella Biblioteca[1] Béla Viktor János Bartók (1881-1945) compositore, pianista ed etnomusicologo ungherese, uno dei pionieri mondiali della’etnomusicologia [2] Fabio Bettoni e Ottaviano Turrioni, "Cannara dell'Umbria La Banda musicale 150 anni", Concerto Musicale Francesco Morlacchi, Bastia Umbra (PG), 1993, p. 105. Civica di Cosenza. Composto da 112 pagine, il libro, scorrevole e di facile lettura, descrive le battaglie e i luoghi dove esse si svolgevano, i pericoli e i grandi sacrifici che dovevano affrontare i garibaldini e i rapporti di amicizia che si stabilirono di loro.
Nato “Supra-a-Terra” a Lago (CS) il 30 dicembre 1842, era figlio del benestante Gregorio Scipione Carusi (1820-1893) e della Nobildonna Giovannina Vitari (1821-1897), nata a Cosenza, figlia dell’ Avv. Domenico Vitari e di Donna Raffaela Mazzotti di Lago, figlia di Don Pasquale Mazzotti (la famiglia Vitari era originaria di Rende CS). Era una famiglia benestante apparentata con i Turchi, Cupelli, Politani, Zingone e Coscarelli di Lago, tutte grandi sostenitrici della causa risorgimentale. Giovanni aveva tre sorelle: Raffaela (n.1841), Giuseppa (n.1847) e Maria Luigia (n.1854). Suo nonno Giovanni Carusi (1795-1862) fino al 1848, fu Capo della Guardia Nazionale di Lago, lo zio Luigi Carusi (1823-1863) fu Sindaco di Lago nel 1852, mentre il padre e lo zio Tommaso Carusi (1835-1903), furono Consiglieri Comunali di Lago quando il Sindaco era Orazio Gatti (1826-1895), forse il più grande mazziniano di Lago.
Giovanni Carusi (1795-1862) sposò Maria Politani (1798-1881) nel 1819 ed ebbero 4 figli:
Con decreto del Re Vittorio Emanuele II del 6 maggio 1866, in previsione della guerra contro l’Impero Austroungarico per liberare il Veneto ed il Trentino (Tirolo italiano) per unirli al Regno d'Italia (III Guerra d'Indipendenza), fu istituito il Corpo Volontari Italiani ed affidato al comando di Giuseppe Garibaldi. Questo Corpo di 36.000 uomini fu raggruppato in dieci Reggimenti ognuno composto da 16 Compagnie suddivise in 4 Battaglioni di 4 Compagnie ciascuno. Il 6° Reggimento, al comando del Colonnello Brigadiere Giovanni Nicotera (1828-1894), sostituito poi dal Tenente Colonnello Francesco Sprovieri (1826-1900), era quello al quale apparteneva Giovanni Carusi, più specificamente nel 1° e nel 3° Battaglione dello stesso.
Foto: i volontari garibaldini vestivano una camicia rossa e pantaloni regolamentari del Regio Esercito, avevano vecchi fucili ad avancarica a canna liscia, armi molto lunghe e pesanti, capaci di un tiro utile fino a 200-300 metri, munite di una lunga baionetta.
Gli austriaci affrontarono gli italiani con l' VIII Divisione comandata da Generale Barone Franz Kuhn von Kuhnenfeld (1817-1896- foto-) aventi il Quartier Generale presso Trento. La Divisione era composta da circa 16.000 uomini ben preparati ed equipaggiati, raggruppati in una brigata e sei mezze brigate di 21 Battaglioni di fanti e 25 Compagnie di tiratori con 1600 cavalli e muli, 32 pezzi d’artiglieria di linea e 127 cannoni in fortezza. L’impero austriaco, al contrario dell’Italia, non si era fatta cogliere impreparata al conflitto e aveva provveduto nei mesi precedenti al potenziamento delle fortificazioni poste sul confine trentino e in special modo di quelle con il bresciano. Utilizzavano un buon fucile ad avancarica a capsula, rigato, a percussione, modello 1854 tipo I e II, chiamato “Lorenz.”
Sintesi di alcune battaglie della III Guerra d'Indipendenza:
Giovanni seguì Garibaldi assieme al fratello e al nobile Venturino Del Giudice di Belmonte Calabro (CS) con il quale strinse una duratura e fraterna amicizia. Ancora oggi, a casa Del Giudice si conserva una bandiera ed una sciabola che i due amici avevano sequestrato agli austriaci durante una battaglia.
Foto: Stendardo austriaco introdotto da Francesco I nel 1828. E' un drappo quadrato a sfondo giallo-oro, stemma imperiale in centro con l'aquila bicipite, afferrante spada e scettro con la zampa destra e il globo con la sinistra.
Coadiuvato dal parroco mazziniano, Don Beniamino De Rosedi Cosenza, Giovanni organizzò una lista di sessanta giovani da inserire nella VI Compagnia del I Battaglione del VI Reggimento dei Volontari Garibaldini comandato prima dal Colonnello Barone Giovanni Nicotera e poi dal Tenente Colonnello Francesco Sprovieri. Il fratello Giuseppe faceva parte della 7° Batteria del V Reggimento.
Per convincere i giovani cosentini a seguirlo, Giovanni scrisse il seguente manifesto che fece affiggere nelle vie di Cosenza:
“Viva Italia. Viva Garibaldi. Viva la guerra. All’armi! A voi, giovani Cosentini, a voi miei diletti confratelli, io indirizzo queste mie parole! Sublime è il giorno che s’avvicina, imperituro nelle storie che saranno, glorioso per noi figli d’Italia! In esso ammirerà il mondo, quel giorno che ricorderà la rigenerazione della Patria nostra! L’ombre di Dante, di Macchiavelli e di Galileo, si aggireranno attorno a noi, rendendo invulnerabile il nostro petto, forte il nostro braccio, audace e terribili i passi! In questo giorno, che sarà eterno, l’ultima prova sì avranno i nostri nemici di quanto son capaci i discendenti dei Bruti, dei Regoli e dei Scipioni! All’armi, o giovani cosentini, all’armi! Oggi che ogni cuore italiano batte nel petto nuovi palpiti d’un amore nuovo, oggi che il destino d’Italia sarà compito e coronato d’alloro- oggi che ogni cantone italiano, per occupare una pagina nella storia delle nostre grandezze, manda i suoi figli all’atto più grande, più glorioso che si fosse mai compiuto- oggi, miei fratelli cosentini, anche noi, concittadini di Telesio e di Campanella, armeremo in nostro braccio per la difesa della Patria oppressa! Avanti dunque, o giovani valorosi ed onorati, avanti! E’ un giovane pari vostro, è un vostro fratello che v’invita alla gloria! - Assieme marceremo coraggiosi- assieme impugneremo il brando- assieme canteremo l’inno della vittoria, ed insieme o morremo per quella Patria che ci diede la vita, o ritorneremo, superbi di noi stessi, nella pace dè i nostri focolari, nel seno delle nostre famiglie, a riprendere il cammino dello studio e della virtù- Lungi da noi il vergognoso pretesto del pianto affliggente della madre, del comando imperioso del padre. Tutti amiamo il nostro padre, la madre nostra: l’amor nostro per loro è un dovere ma un dovere secondario, il nostro primo dovere è verso una madre comune, madre di ventisei milioni di figli, e questa madre è la Patria, è l’Italia! All’armi, o giovani cosentini! All’armi miei diletti fratelli! Date un addio alle vostre belle fidanzate, a quegli angeli che hanno altare nei vostri petti! Ottenete da esse un nastro, una ciocca di capelli, e questa ciocca, e quel nastro v’infonderà nuovo coraggio. Anch’io ho un angelo, anch’io ho una bella, che altera di me e col viso sfolgorate di gioia riceverà l’addio della mia presenza, al quale anch’essa farà ricambio d’un fortissimo addio, rinfrancandomi dell’agone cui mi accingo, con la promessa di allietarmi, se reduce, col guiderdone d’un estasi di voluttà e d’amore, se spento nei campi della gloria, col ricordo incessante di vergine rassegnata alla perdita del fidanzato, che s’immolava gloriosamente per la salvezza della madre comune, l’Italia, e d’un preziosissimo dono, che a Lei restituirò intrecciato alla corona della vittoria, che cingerà la mia fronte nel giorno glorioso dell’unità vera, della vera indipendenza della Patria nostra. Viva l’Italia! Viva Garibaldi! Viva la guerra!”
Alcune notizie riportate nel libro di Giovanni Carusi riguardanti la III Guerra d'Indipendenza
Prima di partire per il fronte, Giovanni ebbe dallo zio Giuseppe Vitari e da Giuseppe Miceli, fratello del patriota Luigi e Preside del Liceo Bernardino Telesio di Cosenza, due lettere di presentazione intestate al Maggiore garibaldino Luigi Miceli (1824-1906), patriota mazziniano che divenne in seguito Deputato e Ministro del Regno d'Italia. Al fronte, uno dei suoi cari amici era Giacinto Mileti di Grimaldi (CS), fratello di Raffaele Mileti, uno dei Mille di Garibaldi che combattè a Soveria Mannelli (CZ). Giovanni vide Giuseppe Garibaldi per la prima volta il 30 giugno 1866 e così descrisse l’evento: “Tutto il Battaglione formò un cerchio attorno a Lui, e l’uno salvava sulle spalle dell’altro per osservare quell’uomo straordinario. A’ nostri ripetuti evviva stava quel Grande cogli occhi inchiodati a terra, troppo modesto per accogliere i nostri saluti.” Il 1° luglio 1866 tutto il 6° Reggimento si mosse verso Salò, impegnando gli austriaci su vari fronti. I volontari garibaldini, tra i quali combatteva il laghitano Giovanni Carusi, indebolirono il nemico ed il 3 luglio 1866 Garibaldi riuscì a conquistare una posizione sul Monte Suello (Battaglia di Monte Suello). Le perdite italiane furono gravi e Garibaldi rimase ferito alla coscia sinistra. La battaglia fu combattuta dal primo pomeriggio fino alla sera per un totale di cinque ore da 1° e 3° Reggimento dei Volontari tra i quali c'era il futuro Presidente del Consiglio, Alessandro Fortis (1842-1909) e dalla 8ª Divisione del Generale Franz Von Kuhn. Fu vinta dai Garibaldini e ciò costrinse gli austriaci a ritirarsi dalla piana della Valle del Fiume Chiese per ripararsi oltre Lardaro ( a nord di Condino sulla cartina geografica). Von Kuhn fallì nel suo tentativo di cacciare gli italiani dal Trentino. Continuarono poi l'avanzata nel Trentino verso Londrone, Darzo, Storo e Condino[1] mentre l’avanguardia garibaldina si installava a Cimego, territorio vicino a Bezzecca, nel Trentino. Fu proprio in questa località, che il 21 luglio 1866 (Battaglia di Bezzecca) Garibaldi sconfisse gli austriaci. Purtroppo, per opportunità politiche, i propositi di Garibaldi di invadere il Trentino furono bloccati (stava per essere firmato l’armistizio tra l’Austria e l’Italia). Il 9 agosto Garibaldi rispose all'ordine di ritirarsi dal Trentino con il celebre telegramma "Obbedisco." Il 14 luglio Garibaldi aveva ricevuto la visita del futuro Presidente del Consiglio Francesco Crispi (1818-1901), il suo braccio destra in Sicilia.
Così fu descritta la Valle del Fiume Chiese dal Carusi: "La parte del Trentino o Tirolo italiano in cui fu l'azione del mio Reggimento, era così detta Valle Bona o del Chiese pel fiume omonimo, che l'irriga. Quest'angusta vallata appartiene al distretto di Condino ed è posta all'estrema punta meridionale del Trentino....La Val Bona è angusta ma di bell'aspetto, perché nella sua parte coltivata verdeggiano vigorosamente i gelsi, le vigne, i castagni, lungo i fiumi i noci, e sui fianchi de' vicini monti rigogliose boscaglie di roveri, di frassini, di carpini e d'altre piante congeneri...il clima è freddissimo: il suo suolo non è troppo fertile ma assai ben coltivato. Produce lino, canape, legnami e tabacco. I tirolesi son d'indole assai laboriosa...I paesi sono situati per lo più nelle gole de' monti.. Tanto le donne quanto gli uomini portano i zoccoli a' piedi e nella testa il cappello alla tirolese. Le case son povere ma pulitissime, ed il cibo ordinario di quella popolazione è polenta, patate e legumi. Ben selciate sono le strade di quei paesetti, e ad ogni dieci metri si trova in un canto di strada o nel muro di qualche casa un Cristo, una Madonna e tanti altri segni d'ignoranza e di superstizione. Ha più chiese che case, ed i campanili sono tutti a punta. " La Valle del Chiese fa parte delle Valli Giudicarie che si trovano ad un'altitudine tra i 2046 e i 2195 metri. Nel libro si trovano varie descrizione geografiche, storiche e sociali delle varie località in quanto l'autore oltre ad essere molto colto, portò con se la "Guida pel Viaggiare in Italia". Infatti si legge a pagina 99 del libro: " ...cosicché io appena scendea in una città, apriva la pagina che parlava di essa e dritto me ne andava a visitare quei luoghi e quelle opere che la guida m'indicava ".
Il 30 luglio 1866, il giovane garibaldino incontrò la Marchesa Pallavicini di Genova che dava conforto e sollievo ai soldati ammalati e feriti. Era la moglie del Marchese Emilio Pallavicini (1823-1901) colui che fermò Garibaldi sell’Aspromonte il 29 agosto 1862.
Il Carusi venne ricoverato a Brescia all’ Ospedale di Santa Giulia dal 24 al 27 giugno 1866 e dal 17 luglio 1866 al 5 settembre 1866 per una linfadenite inguinale destra. Per un breve periodo, fu ricoverato anche nell’ Ospedale Maggiore di Milano per febbre ricorrente di causa ignota. Evidentemente, l'esposizione al freddo e alla pioggia, senza vestiti adeguati e con una alimentazione scarsa, avevano compromesso il suo sistema immunitario.
La cessazione delle ostilità fu formalmente garantita con l' Armistizio di Cormons, il 12 agosto 1866, seguito da Trattato di Vienna il 3 ottobre 1866.
Dopo l'armistizio, al suo ritorno dal fronte, Giovanni col grado di luogotenente, assieme al padre Gregorio, fecero parte nel Comune di Lago della “Terza Compagnia in Servizio Attivo” dei garibaldini organizzata dal Sindaco di Lago Orazio Gatti (1826-1895) per rispondere ad eventuali chiamate da parte di Garibaldi per completare l'unità d'Italia.
Foto: Appunti personali di Orazio Gatti dove si notano i nomi di Carusi D. Gregorio e Giovanni, riga 2 nell'elenco. (Archivio di Silvio Mazzotti)
Giovanni aveva anche ottimi rapporti con il Magistrato Regio e Procuratore Generale del Regno, Don Nicola Falsetti, nato a Lago nel 1846, e alla fine del suddetto libro, il Falsetti sentì il bisogno di comporre e dedicare all’eroe Giovanni la seguente poesia.
A GIOVANNI CARUSI
Forte di patria carità scaldato corresti, o prode giovane, all'appello d'Italia, e fosti impavido soldato-
In tua mente ridea splendido e bello il pensier di morir per la tua terra, che l'Austria ancor facea di servi ostello-
E volontario milite alla guerra correndo, pruove all'oppressor tu desti del valor, che negl'Itali si serra-
Il sa Condino! -quivi ti vedesti cadere al fianco i tuoi compagni, e in core di coraggio maggior fiamma accendesti-
Una lagrima ancora di dolore ti velò la pupilla, ma quel pianto caro pagava il barbaro oppressore-
E ancor dovresti piangere sul santo fral di Lombardi, che primo tra' primi ottenea di gagliardo Italo il vanto-
Quanti slanci d'ardir, quanti sublimi pruove, e quante speranze à tu vedute cader, tu dunque con la penna esprimi-
Racconta quanto fer per la salute d'Italia i nostri, e quanti allor soffriro, e svela a noi la calabra virtute-
Noi leggendo le carte del martiro Italian, benediremo Iddio, che dopo tanti martiri, il desiro di questo antico popolo adempìo-
Cosenza 28 Luglio 1867 Nicola Falsetti
Al suo ritorno in Calabria il 25 settembre 1866, riscoprendo il suo grande amore per la Calabria, per il suo paese e la sua famiglia, il Carusi scrisse:
“All’alba del 25 partii per Cosenza, ed un’insprimibile gioja sentia nello avvicinarmi alla città dei miei sospiri, alla città dove dimorai per dieci anni, ed ove il mio cuore ricevé la prima lezione nella scuola d’amore…partii pel Lago mio paese...Da Cosenza dunque fummo in Domanico dopo due ore e la famiglia Stancati ci ricevette con atti di gentilezza e d'amore che le son propri. Mia madre e le mie sorelle, prevenite del mio arrivo in Cosenza, ni attendevano con impazienza affannosa, e di già avevano spedito varie persone sulla montagna di Potame ad attendere il nostro passaggio...Dulcis amor patriae: è questo un detto che non ammette contrasti, ed io lo provai quando dopo cinque mesi di assenza facea ritorno nella casa in cui nacqui. Ecco le colline che fan corona al mio paese, ecco le valli ed i monti che varcai tante volte sulle tracce d'un lepre o altro; ecco il fonte dove mi dissetai più fiate; ecco una collinetta, e poi, ecco il Lago, il mio caro paese: è la casa mia, io la distinguo e corro col cavallo per giungervi presto. Dopo pochi minuti scavalcai davanti il portone della mia casa, ove piangenti di gioia mi attendevano la madre e le tre mie sorelle. Fu commovente oltremodo la scena che avvenne tra me e loro, e le madri e le sorelle potranno facilmente immaginarsela."
Difficoltà psicologiche dell'emigrato meridionale italiano a New York tra il XIX e il XX Secolo
Il fenomeno dell’emigrazione è antico quanto la storia dell’uomo il quale possedendo il desiderio e la forza di cambiare e di spostarsi, spesso rischiava nel lasciare ciò che gli era noto per avventurarsi nell'ig-noto. Emigrare non è mai stato considerato un diversivo ma uno sradicamento, un brutale cambiamento della propria esistenza. Non si rinuncia facilmente alla propria terra e alla propria cultura, non si abbandona il proprio paese se non si è spinti dalla povertà, dalla guerra, dalla carestia, dalla disoccupazione, da governi dittatoriali, da sovrappopolazione, dal brigantaggio, da disastri ambientali (terremoti, alluvioni) e da epidemie (come la malaria, il tifo e il colera) anche se spesso si emigrava per riunirsi con gli altri membri della famiglia già stabiliti all'estero. Emigrare era un’esperienza spesso destabilizzante: significava fare i conti con lo spettro dell’ignoto e mettere a rischio la propria identità. La partenza era vissuta come un salto nel vuoto, verso nazioni sconosciute, che l’ignoranza non permetteva nemmeno di posizionare geograficamente. Il brusco e doloroso cambiamento dovuto all'emigrazione può essere scioccante e provocare un trauma psichico specialmente se nel Paese ospitante è diffusa una mentalità xenofobica che blocca l'inserimento a causa di norme socio-culturali e comportamentali diverse e che limitano i rapporti interpersonali in un ambiente già difficile per la barriera linguistica. La decisione di emigrare comportava dunque uno stato psicologico complesso e spesso sconvolgente, altalenante tra la paura dell’ignoto e la speranza di una vita migliore. Si sperava che il periodo di emigrare fosse breve e momentaneo, ma a volte si perdeva la speranza del ritorno e per alcuni, si faceva strada la convinzione lacerante che la perdita ed il distacco fossero definitivi. E’ proprio la possibilità o l’impossibilità di ritornare nel proprio paese che segnò maggiormente il carattere dell’emigrazione. Poter partire significava anche un’opportunità: regalarsi il sogno che può permettere a chiunque di riuscire a tornare per comprare un pezzo di terra nel proprio paese e di poter un giorno far studiare i propri figli.
Il soliloquio di un emigrante:“ Anche l’ultima, la più sacra catena che mi legava ancora a questa terra, s’è spezzata. Addio paese, addio casa dei miei padri, addio umile cimitero bagnato di pianti e di dolori e ornato di fiori senza profumo. Vado lontano e nessuno mi può rimproverare se cercherò altrove come campare onestamente la vita. Voi, memorie dell’ infanzia, voi, ignorati e felici anni fanciulleschi, ardenti e giovanili pensieri di gioia e di gaudio, vi ho perduto per sempre. Eccomi povero e fuggiasco, sono come l’orfano che i felici, con insultatrice alterezza, cacciano lontano da loro, e, vorrei quasi non avere più affetti, né pensieri, né speranze… E parto, lontano, lontano. Forse andrò dove i tramonti sono senza quel rosso che si chiama speranza, dove i ruscelli scorrono con più forza e impetuosità, dove le albe non si tingono di rosa. Addio grandi sogni e … piccole cose, da lontano chiederò al vento di portarvi il mio respiro, il mio saluto. Con voi ho sofferto, con voi ho pianto, con voi ho digiunato, con voi ho anche sorriso...Vorrei potervi dimenticare, vorrei cancellare ogni cosa dalla mia memoria, ma non posso. Vi ho con me nel cuore perché la vostra vita è come la mia, afflitta e stanca. Addio dolci serenate al chiar di luna dove un’innamorata sognava al suono della mia chitarra e dove il cuore tremava di gioia e di sogni incantati…Ormai sono solo. Non v’è nessuno che m’accompagni nel mio solitario cammino. Quante cose vorrei gridare ad alta voce, ma nessuno mi ascolterebbe e mi tocca soffocarle qui dentro, poiché la voce d’una società corrotta è sempre più forte d’una voce che viene da un povero cuore, pieno di tormenti e di dolori. Più non vi vedo mie povere e piccole cose, gli occhi sono bagnati di pianto, dal pianto del dolore. Tutto ormai è compiuto, io lontano, solo si, ma in compagnia della mia triste sorte. Ancora piangendo eccovi l’ultimo saluto, come un morente, un naufrago, vi stendo le braccia, lasciandovi l’ultimo mio sguardo. La terra estranea un giorno accoglierà queste mie povere ossa, ma non il mio cuore. E il nome della mia terra morrà sul mio labbro.”
Appena arrivati all’estero gli emigranti dovevano quasi subito confrontarsi con delle culture diverse senza avere avuto nessun orientamento in merito. L’atteggiamento accomodante e il sentimentalismo del meridionale italiano si scontrava con la cultura pragmatica e puritana degli Stati Uniti e del Canada. Non potendo esprimere le proprie emozioni in un ambiente dove bisognava auto-controllarsi, dove il pianto rappresentava una esagerata debolezza e non uno sfogo al dolore, e dove l’allegria veniva considerata puro esibizionismo, si possono comprendere l’origine dei disagi e dei conseguenti disturbi emotivi. Gli uomini lamentavano delle problematiche nell'ambiente di lavoro a causa della sempre maggiore richiesta di produttività, per i processi di automazione (catena di montaggio), per il sistema del cottimo (lo stipendio non era fisso ma pagato in base a quanto si produceva), per la concorrenza professionale (nei posti di lavoro c’era sempre qualcuno che avanzava in carriera a scapito di altri lavoranti) e per la paura della disoccupazione (il pensiero che si potesse perdere il lavoro era angosciante perché era facile venire licenziati in ambienti dove i sindacati non avevano molta influenza).
All'inizio del XX secolo negli USA si presumeva che l'emigrante dovesse americanizzarsi dimenticando il proprio mondo rurale e le proprie tradizioni, annullando la natura espansiva, emotiva e passionale tipica del meridionale italiano. In America invece, venivano apprezzate la riservatezza, la prudenza, il formalismo e il pragmatismo, imparando alla svelta che la solarità, la spontaneità e la schiettezza avrebbero creato dei problemi inter-personali. All'epoca negli USA non era accettato un approccio multiculturale ma solamente quello nazionalistico per "God's Country" del popolo "eletto" dal Signore.
L'opinione pubblica di allora etichettava gli italiani del Sud come sudici, ignoranti e violenti clandestini affiliati alla Mafia o alla Mano Nera, degli anarchici, dei socialisti o dei comunisti, dei chiassosi e dei superstiziosi che praticavano dei riti religiosi vistosi e primitivi. Al loro arrivo molte persone di altre nazionalità cambiavano quartiere e gli italiani venivano apostrofati con degli epiteti dispregiativi come «dago» (dallo spagnolo "Diego"), "guinea" ("porcellino d'India") e «wop” ("without papers" senza documenti o clandestini).
Si generalizzava che i calabresi e i siciliani fossero dei delinquenti e che la violenza nei ghetti italiani rappresentasse un prodotto di importazione, connaturato alla loro cultura e tradizione. Si leggeva sul «New York Times» del 1° gennaio 1894: "Abbiamo all'incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l'industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con se un attaccamento per le loro attività originarie".
Gli italiani venivano considerati poco intelligenti e fisicamente deboli, rafforzando così l'idea che i matrimoni misti potessero fare degenerare la pura razza bianca anglosassone sia dal punto di vista fisico che mentale. Anche con il supporto di alcuni antropologi, genetisti e sociologi, si cercava di dimostrare i rischi dell'integrazione con razze “inferiori”.
I comportamenti dei Meridionali provenienti da una cultura venivano percepiti come azioni di coloro che non seguivano le più elementari norme igieniche, che non mandavano i loro figli a scuola e che tenevano le donne sottomesse.
In questo ambiente poco ospitale, gli emigranti più sensibili ed emotivamente più vulnerabili rischiavano che il rifiuto e la paura prendessero il sopravvento rendendoli di conseguenza insicuri, delusi, disorientati, ansiosi e depressi e a volte rabbiosi e diffidenti verso il prossimo.
In realtà, la discriminazione non era contro gli italiani del Sud in quanto tali ma contro l'indigenza e la povertà in generale: “La povertà è sempre stata male accolta. Motivo di repulsione e di esclusione. Al limite si accetta la differenza a condizione che sia ricca, a condizione che ci siano i mezzi per truccarla e farla passare inosservata. Siate diversi, ma ricchi! Coloro che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono votati all’umiliazione e ad ogni forma di razzismo. Danno anche fastidio. La loro presenza è di troppo. Il viaggio, per loro non sarà mai di villeggiatura. Per loro il viaggio è una valigia legata con lo spago, pacchetti di roba da mangiare e un pugno di terra o di menta dal paese, nel fazzoletto”.
Questi affanni e queste problematiche disorientavano i Meridionali i quali si sentivano diversi e distanti da tale società americana, e di conseguenza reagivano isolandosi e stabilendosi quasi tutti nello stesso quartiere (ad esempio, i calabresi si agglomerarono lungo Crosby Street di Lower Manhattan). Si creavano e si mantenevano una forma di nostalgia morbosa che sopravvalutava le tradizioni e i ricordi dei tempi andati, idealizzando il passato e coltivando la speranza di un ritorno al paesello nativo. I lunghi turni di un lavoro pesante e gravoso li depersonalizzavano lasciando poco spazio per una propria vita sociale e personale.
Giuseppe Prezzolini [2] (1882-1982), giornalista ed editore italiano che nel 1963 dedicò un libro agli italo-americani dal titolo “I trapiantati”, sostenne che l’emigrazione fu una grande tragedia. Egli scrisse che l’italiano emigrato che non fosse diventato un delinquente o un pazzo, era da considerarsi un'eccezione. Strappare un essere umano dalla società contadina nella quale era cresciuto, rappresentava un grave impedimento all'equilibrio psico-emotivo.
Il medico italiano Tullio Suzzara Verdi (1829-1902) che nel 1850 emigrò negli USA dove visse fino al 1902, affermava che gli americani sopravvalutavano le loro Istituzioni che credevano le più democratiche e le più liberali al mondo. Gli italiani se desideravano vivere bene ed essere accolti con stima ed apprezzamento dalla società americana, dovevano esimersi da giudizi, biasimi e condanne. Non potevano criticare le sue Istituzioni, i suoi usi e costumi mostrando invece di comprendere quello che la Nazione ha di grande e di virtuoso proclamandolo ad alta voce.
"Attento Zio Sam per la discarica senza legge" una vignetta xenofobica contro gli italiani, apparsa nel 1903 su un giornale americano. Arrivano i topolini italiani nei porti USA visti come assassini, mafiosi, anarchici e socialisti
Pur ammettendo che il nuovo ambiente potesse nuocere psicologicamente agli emigranti, bisogna considerare la possibilità che questi fossero già portatori di affezioni psicopatologiche e che avessero una predisposizione per tali disturbi correlata alla classe sociale, all'età, al sesso, allo stato civile, al livello d’istruzione e alla disoccupazione.
Certamente questa labilità era maggiore negli emigranti “permanenti” e minore in quelli “temporanei” che desideravano ritornare in patria dopo due o tre anni di lavoro. Anche il concetto della provvisorietà può essere dannoso perché spesso significa rinviare l’attuazione di progetti importanti, sviluppando una sensazione di incertezza e di continua tensione. Nascono così delle situazioni di disagio e di inadeguatezza legate a problemi linguistici, culturali di adattamento e di isolamento.
Vi erano inoltre delle inadeguate condizioni abitative costituite da vecchi condomini cadenti ("tenement houses") nei vari ghetti di New York. Gli italiani appollaiati in una stanza da letto assieme ad altri cinque o sei emigranti non riposavano bene, non avevano spazi per la propria privacy e non curavano la propria igiene personale. Riguardo alla dieta, si nutrivano insufficientemente di sostanze proteiche e vitaminiche, e di conseguenza, dopo pochi anni, diventavano malnutriti, anemici, astenici, gastritici, colitici ed anoressici e a volte dispnoici e tisici. Questi disturbi fisici erano alla base delle loro psicopatologie ansiogene, depressive e a volte psicotiche. Le problematiche legate all'emigrazione si possono distinguere in tre fasi: quelle prima della partenza, quelle della partenza e quelle dopo la partenza. Durante la prima fase potrebbero preesistere una certa vulnerabilità psicologica individuale, dei disturbi dell’umore, delle paure o delle fobie o dei disturbi della personalità. Nella seconda fase è spesso presente una reazione di lutto e a volte una sindrome da uno “shock culturale” con un blocco dell’adattamento o della assimilazione.
[1] Il 16 luglio 1866 sul Fiume Chiese, durante la Battaglia di Condino, il VI Reggimento subì considerevoli perdite e perse la vita l'eroe Agostino Lombardi (1829-1866), medaglia d’oro al valore militare. [2] Giuseppe Prezzolini (1882-1982) fu un giornalista ed un editore italiano che visse a New York dal 1939 al 1962 e che fu professore presso la Columbia University.
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Ultimo aggiornamento: 26-01-15